#neveragain

Due anni fa, in occasione della Giornata della Memoria, pubblicai su Facebook questa vignetta, ricevendo in tempo zero accuse di antisemitismo e negazionismo.

Holocaust_Remembrance_Day

Holocaust Remembrance Day, di Carlos Latuff (fonte: Wikimedia Commons)

A nulla valsero i miei tentativi di spiegare che il mio non era antisemitismo, né tanto meno negazionismo. D’altronde la vignetta non negava assolutamente che fosse stato perpetuato il genocidio degli ebrei (e non solo) da parte dei nazisti negli anni Trenta e Quaranta: so bene che quella barbarie è accaduta, sono stato su alcuni dei luoghi dove sono stati commessi tali crimini e ho letto e ascoltato le testimonianze di coloro che sono sopravvissuti all’orrore, alla deprivazione e al calpestamento financo della propria umanità. In particolare, mi sono sempre rimaste impresse le parole di Primo Levi, il quale infine morì suicida per non essersi mai davvero ripreso da ciò che aveva vissuto e raccontato nei suoi scritti:

“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono essere nuovamente sedotte ed oscurate: anche le nostre”.

Di fronte a testimonianze come la sua, diventa chiara la necessità di non dimenticare e di ricordare a noi generazioni che abbiamo vissuto solo nella “belle epoque” dell’Unione Europea in un momento di pace e umanitarismo senza precedenti sul nostro continente, che tutto ciò non è affatto scontato e che dobbiamo prendercene cura. Perciò ben vengano le giornate della memoria e tutte quelle iniziative che perseguono questi obiettivi. Il mio scopo non era di attaccare queste manifestazioni fondamentali per l’educazione alla cittadinanza e all’umanità del cittadino europeo del XXI secolo. Il mio scopo era denunciare una loro possibile strumentalizzazione.

La pubblicazione da parte mia di quella famosa vignetta aveva l’obiettivo, infatti, di evitare di banalizzare (e di fatto neutralizzare) la giornata della memoria mettendola a servizio della propaganda sionista (cioè della politica di Israele). Attenzione: questo non è in nessun modo un attacco “agli ebrei”, come mi fu allora contestato, bensì “al sionismo” inteso come politica espansionistica finalizzata alla pulizia etnica dei territori rivendicati dallo Stato di Israele. Se non in precedenza, almeno dal 1948, anno della fondazione del nuovo stato, Israele ha condotto campagne di conquista territoriale senza curarsi del fatto che nell’area palestinese negli ultimi 3000 anni si fossero insediate altre persone che avevano (e hanno) almeno lo stesso diritto di abitare quelle terre. Talvolta con la colpevole omertà della comunità internazionale, in altri casi violando le direttive dell’ONU, le azioni dello stato di Israele sono assimilabili ad azioni di conquista e di colonizzazione, nonché di ghettizzazione della comunità locale attraverso il confinamento e l’impossibilità de facto (quando non de iure) alla mobilità delle persone. È di pochi giorni fa l’ultima arrogante direttiva con la quale Netanyahu autorizzava la costruzione di nuovi insediamenti colonici nei territori palestinesi. Arrogante in quanto il premier israeliano ha avuto anche il coraggio di accusare il segretario dell’ONU Ban Ki-moon di incoraggiare i “terroristi palestinesi” (attenzione alla terminologia! Non persone, ma terroristi – tutti). Ban Ki-moon, in realtà, si era limitato a esprimere la sua preoccupazione “bipartisan” (non solo per gli insediamenti israeliani, ma anche per alcuni nuovi lanci di missili da Gaza) ma avrebbe avuto l’ardire di aggiungere che “è nella natura umana reagire all’occupazione”.

Comunque, dopo la lavata di capo ricevuta ero un po’ pentito di aver pubblicato una vignetta così polemica in un giorno così importante, in cui si dovrebbe ricordare il passato per imparare da esso. Così l’anno scorso ho deciso di rimediare e ho pubblicato la descrizione dell’orrore di un campo così come fu trovato da coloro che per primi vi entrarono dopo l’eccidio. In fondo, come molti altri quel giorno, ho aggiunto l’hashtag #neveragain (mai più), perché davvero certi orrori non devono mai più ripetersi:

Immagine

Il passaggio da me scelto era davvero crudo: cadaveri ammucchiati ovunque, squartati, un bambino maciullato… Il post ricevette 5 mi piace e una condivisione. Nessuno ebbe da ridire sulla crudeltà messa in mostra in modo così pornografico: d’altronde essa è assai utile per smuovere le coscienze e per far comprendere fino a che punto può spingersi la brutalità umana (attenzione: purché non si diventi assuefatti – ma questa è un’altra storia) ed è in questo senso funzionale agli obiettivi di sensibilizzazione che la giornata della memoria si prefigge. Quello che mi stupì, però, è che nessuno si accorse che in quell’occasione non citai la fonte, cosa che non manco di fare praticamente mai. Ebbene, se qualcuno si fosse preso la briga di cercarlo su Google forse avrebbe avuto una bella sorpresa: quel passaggio, infatti, non era stato scritto da un testimone della liberazione dei campi di concentramento nazisti. Badate bene: avrebbe potuto esserlo, senza alcun problema. Ma non lo era; e qui sta il punto. Infatti, se basta evitare di citare la fonte perché a nessuno venga il dubbio che si stia parlando di un altro genocidio, allora qual è la differenza tra i due massacri? Forse che i morti dell’uno hanno più valore? O che in uno dei due sia stata usata crudeltà (sempre che la si possa misurare) in dosi più massicce?

La risposta è: nessuna. O meglio: la differenza sta nella risonanza mediatica che hanno avuto, nella mano lunga del quarto potere. Ma un genocidio è un genocidio e cioè, secondo l’ONU, una serie di “atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.

Non è il caso che mi dilunghi qui a raccontarvi la storia del massacro di Sabra e Shatila (se vi viene voglia, la trovate su questo stesso blog cliccando qui). Infatti, rischierei di essere di nuovo considerato inopportuno: d’altronde, è la giornata della memoria, e di quegli altri morti non ci interessa.

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